martedì 25 marzo 2008

ROOM 2 / GIULIO DELVÈ 30 marzo - 7 aprile


30 MARZO – 7 APRILE

GIULIO DELVÈ

OPENING DOMENICA 30 MARZO ORE 18.00

La serie “Tumbleweed” (termine inglese usato nelle comunicazioni radio militari per esprimere richiesta di informazioni nel caso in cui si dia una scarsa consapevolezza della situazione), che rappresenta il primo corpo maturo di lavori di Giulio Delvè, si sviluppa sulla base di un interesse generale dell’artista per la meccanica, per i dispositivi interessanti, meccanismi da studiare e da riprodurre, da egli stesso assemblati, ai quali affida, in alcuni casi, anche la riproduzione artificiale di movimenti e suoni elementari che l’artista stesso non riesce a compiere naturalmente. Per Giulio Delvè la “macchina” ha ancora un’anima analogica, semplice nella sua complessa articolazione. L’esigenza quindi di capire, di reagire alla potenza distruttrice della tecnologia elevata alla sua estrema potenza è espressa in un gesto immediato e preciso: quelli che dovrebbero essere efficienti mezzi da guerra, diventano delle sagome imbalsamate, immobilizzate da una semplice garza che ne blocca i movimenti e ne benda la memoria. Il video – Untitled (Tumbleweed series), 2007 – smaschera l’impotenza, la follia della tecnica al servizio della forza bellica; il lamento ripetuto di un maniaco imbrigliato in camicia di forza.

Il testo di Flora Visca, che accompagna la mostra, analizza quello che potrebbe definirsi lo stato mentale dell’uomo dopo l’avvento della tecnologia imperante. Un’analisi in prima persona delle implicazioni etiche prodotte dalla “macchina” e dal suo iniquo utilizzo.

NESSUNA OMBRA OLTRE LA MIA di FLORA VISCA

Tumbleweed è l’eco di una voce che sento dentro me, un grido silenzioso, emesso non solo dagli uomini, ma anche da altri esseri viventi, da elementi inanimati, dalla natura stessa dell’umanità.

Dal fondo del terzo millennio arriva l’assordante frastuono di un motore, un rumore forte che mi ottunde la mente…la “macchina” prende l’abbrivio per partire, ma viene quasi immediatamente arrestata da un ostacolo che si trova dietro la macchina stessa e che, in virtù di questa posizione, quasi si rende testimone di un’impossibilità che è all’origine del complesso meccanico.

La macchina si “ostina” nella reiterazione della stessa operazione.

Mi guardo intorno, i miei occhi cercano di comprendere chi possa aver dato l’avvio a quella macchina, ma non vedo altre ombre oltre la mia. L’idea che non ci sia nessuno a manovrare quel dispositivo mi incute una certa angoscia perché, improvvisamente, sento che quella macchina, nella quale dovrei ravvisare una traccia di umanità, in realtà, è completamente altro da me.

Ho l’impulso di fuggire, allontanarmi, liberarmi… ma la sua patologia investe, ormai, anche me.

Il battito del mio cuore comincia ad accelerarsi, alimentato dalla paura, accompagnato dall’idea che davanti a me ci sia qualcosa che non riesce a sentirlo, questo battito, che non sa che io esisto, non sa neanche che essa stessa esiste.

Mi viene subito in mente che una macchina non è auto-cosciente, di conseguenza non può auto-governarsi; non è in grado di pensare, di sentire ed elaborare le mie stesse emozioni. È un sentimento ambivalente quello che provo, l’istinto è quello di fuggire, la necessità è, invece, restare.

In ogni caso sento di non potermi sottrarre alla presa del grande automa bendato perché esso è presente, con differenti sembianze in ogni aspetto della vita del mondo: è sui campi di guerra, nelle strade della città, negli spazi lavorativi, nella mia casa, sulla mia scrivania, nelle tasche dei miei vestiti, è nello schermo della tv, tra i giochi dei bambini. È presente sul corpo e nel corpo; la sua presenza invasiva e totalizzante opera uno svilimento della vita stessa: entra in essa e la trattiene, la imbriglia, la paralizza, la modifica, la costringe a mutare le proprie condizioni e abitudini.

Ma la vita non è soltanto schiacciata dalla macchina; esiste, ad opera dell’uomo, un particolare tipo di macchina in grado, addirittura, di distruggere la vita: è la macchina da guerra, la più mostruosa delle invenzioni umane, simbolo di un’ambizione spregevole, ancora viva negli animi degli uomini contemporanei.

Quand’ero bambina pensavo che la guerra fosse una cosa lontana da me sia nel tempo sia nello spazio. Avevo l’ingenua convinzione che essa fosse un argomento così passato da studiarlo nei libri per questa ragione. Crescere ha significato anche apprendere l’amara verità che, in realtà, la guerra è presente, anche quando è assente; non importa dove si svolga una guerra, quanto lontana essa si da me, perché io la sento, sento la sua ingiustizia.

La guerra non la capisco, anche se me la spiegano, non la capisco.

Improvvisamente mi viene voglia di vestire nuovamente i miei panni di bambina per dar vita ad un sogno, magari attraverso uno di quegli innumerevoli disegni che facevo da piccola. Disegnerei un’enorme macchina da guerra, avvolta in tanti lacci e li terrei stretti fino a svegliarmi.

ENGLISH VERSION

30 MARCH – 7 APRIL

GIULIO DELVÈ

OPENING SUNDAY 30 MARCH 6.00 p.m.

The “Tumbleweed” series (tumbleweed is a term used in military radio communications to request information about an on-going situation) is the first mature work by Giulio Delvè. It draws on the artist’s interest for mechanics, complex devices, mechanisms to be studied and replicated, that he assembles himself and that he sometimes uses to artificially reproduce elementary movements and sounds that he is not capable of making naturally. For Giulio Delvè the “machine” has still got an analogical soul, simple and complex at the same time. Therefore the need to understand, to react to the destructive power of high technology is expressed in a straightforward manner: powerful war equipment become embalmed silhouettes, immobilized by a simple gauze that prevents them from moving and bandages their memory. The video – Untitled (Tumbleweed series), 2007 – reveals the powerlessness, the foolishness of technique at the service of war; the repetitive groan of a maniac bridled in a strait jacket.

The text written by Flora Visca for the exhibition analyses what could be defined as the man’s state of mind after the appearance of the powerful technology. A first-person analysis of the ethical implications of “machine” and its iniquitous use.

NO SHADOW BUT MINE by FLORA VISCA

Tumbleweed is the echo of a voice that I hear inside of me, a silent cry let out not only by men, but also by other living beings, by inanimate elements, by the very nature of humanity.

From the bottom of the third millennium there comes the deafening noise of an engine, a strong noise that blunts my mind....the “car” gathers way to start, but it is almost immediately stopped by an obstacle that is located just behind the car itself and that becomes, for the position it occupies, the witness of the impossibility that lies at the origin of the mechanical device.

The car reiterates the same operation over and over again with obstinacy.

I look around, my eyes trying to understand who started the car, but I see no other shadow but mine. The idea that nobody is controlling that device gives me anguish because I suddenly feel that the car, in which I should spot some trace of humanity, is instead completely alien to me.

I impulsively want to run away, go far, free myself.... but I am affected by the same pathology of the car by now.

My heart starts to beat faster because I am scared, because of the idea that in front of me there is something that cannot hear that beat, that doesn’t know I exist, doesn’t even know it itself exists.

It suddenly comes to my mind that cars are not self-conscious, and as a consequence

they can’t drive themselves; they cannot think, nor feel the emotions I feel. I have mixed feelings...on one side I want to run away, on the other I feel the need to stay.

In any case I feel I can’t escape the grip of the big blindfold automaton because it is present, under different guises, in every aspect of life: on the war fields, on the city streets, in the workspaces, in my home, on my desk, in the pockets of my clothes, on the tv screen, in children’s games. It is on the body and inside the body; its invasive and all-absorbing presence debases life: it penetrates it and holds it, it bridles it, paralyzes it, modifies it, and forces it to change its habits.

But machines do not just crush life; man, in fact has created a particular type of machine that can even destroy life: the war machine, the most hideous of human inventions, the symbol of a despicable ambition, still alive in the heart of the contemporary man.

When I was a child I thought that war was something far from me both in time and space; I naively believed it was something that belonged to the past and in fact you study it at school. Growing up I had to face the bitter truth that war is present also where it is not present; no matter where a war is taking place, or how far it is from where I am, I still feel it, I feel its injustice.

I do not understand war, even if they explain it to me, I just do not understand it.

It makes me want to go back to when I was a child, and bring a dream to life, maybe through one of many drawings I used to make at that time. I would draw a huge war machine, wrapped in a lot of laces, and I would hold them tight until I wake up.

1 commento:

Anonimo ha detto...

w giulio delvè